Questo articolo apparso sul “Corriere del Veneto” del 04/07/2017 capita a fagiolo per vari motivi:

innanzitutto perché come comunità (in unità pastorale) stiamo affrontando da vicino il tema dell’accoglienza e perché, facendo questo, ci siamo accorti come molti della nostra comunità non sanno della presenza, da decenni, di alcune realtà, attive tra le nostre case…

Ciò nonostante, in queste strutture o con queste attività, alcuni di noi ci hanno passato momenti di formazione, di crescita relazionale e culturale oltre che spirituale, vicinanza con amici e amiche poi partiti per missioni di vario tipo e magari alcuni rientrati… vero Suor Lucia? 🙂

Ebbene, siamo orgogliosi, sì!  

Jonathan, gestore di una comunità di recupero per criminali a Vicenza:
«Cerco pezzi per aggiustare gli uomini»

Il centro ospita assassini, ladri, rapinatori inviati dal carcere

VICENZA L’officina del signor «Jonathan» assembla uomini. Gli arrivano smontati – assassini, ladri, rapinatori, il carcere glieli manda alla rinfusa – e il suo lavoro consiste nel mettere insieme i pezzi. Talvolta ci riesce, talvolta no, quasi sempre ne manca uno. Trovare il pezzo mancante è la sua specialità. In questo si fa aiutare da Stefania e Lorenzo, due part-time. Dire che i pezzi li fabbrica a mano sarebbe corretto se non fosse che deve metterci anche l’anima. Inoltre non ci sono manuali da consultare, né istruzioni per l’uso – lui dice che non c’è nemmeno un regolamento, «ci sono solo regole» anche se poi, parlandogli, intuisci che da qualche parte deve aver imparato: in seminario forse, l’unica scuola probabilmente in grado di fornire una sufficiente preparazione in materia – in ogni caso, quando «Jonathan» ha fortuna e trova il pezzo mancante, l’uomo viene fuori intero o quasi, diversamente il lavoro resta incompleto. L’ «officina» di cui parliamo è un’associazione di promozione sociale. Si chiama «Progetto Jonathan» e sorge in via della Paglia alla periferia di Vicenza in un vecchio casale che le suore della Divina Volontà hanno dato in comodato.

Attualmente ospita otto persone più quattro o cinque esterni che vanno e vengono e ha anche una presidente, Emma Rossi. Uno degli esterni, recentemente, è uscito e non è più rientrato, fatto irrilevante in sé – capita, c’è chi evade, chi latita, chi torna e chiede scusa – e nessun giornale ci avrebbe fatto caso se lui non fosse il celebre Gianni Giada, ex «contabile » della mala del Brenta chiamato anche il «doge nero» a cui il giudice ha revocato la semilibertà per certe lettere che da due anni scriveva a una ragazza, una ex-volontaria del «Progetto Jonathan», lettere dal contenuto assai poco dogale, diciamo pure oscene. Stalking. Nei giorni successivi altre due ragazze hanno lamentato lo stesso trattamento. Gianni Giada è un esempio di pezzo mancante. E potremmo partire da qui per raccontare i fallimenti del nostro «meccanico » o anche dei suoi successi che sono in quantità superiore e dei quali – ed è questo il bello – «non se ne ha prova se non quando arrivano». Il «controllo di qualità» è difficile e i riscontri possono saltare gli anni, per non dire dell’opinione comune secondo cui i criminali restano sempre criminali, cosa su cui «Jonathan» non avrebbe nulla da obiettare sennonché l’argomento è banale. Dopo aver spillato l’acqua fresca dal pozzo artesiano del cortile e riempitomi il bicchiere – lui mi guarda dritto e dice: «Di ogni uomo che entra qui dentro ricevo tre versioni, quella raccontata dai giornali, quella fornita dai carabinieri e quella che dice lui. Nessuna delle tre è vera, tanto vale farne a meno. So tuttavia che chi viene qui dà sempre colpa agli altri: qualcuno li ha traditi o sono stati beccati o li hanno mal consigliati, dicono tutto meno quella che mi interessa sentire: che hanno fatto del male a qualcuno e che a quel qualcuno pensano.

E’ il loro pezzo mancante, la parte che non hanno. Procurargliela, o almeno provarci, è il mio lavoro. Si chiama lavoro di «riparazione ». In quel momento si apre il cancello e una volante dei Carabinieri scarica un nuovo ospite, Ghezzim, albanese, 20 anni, privo di tutto, anche delle mutande di scorta. Jonathan lo affida a Rubin, un correligionario sperimentato e freddo – «Rubin sparava e sparava dritto » – il fatto è che Ghezzim prima di essere arrestato in Italia ha passato due anni chiuso in casa in Albania per via del Kanun (legge del sangue: tu hai ammazzato mio figlio, io mi prendo il tuo, la vendetta tuttavia non si consuma in casa della vittima, deve avvenire all’aperto, quindi, finché uno resta in casa, è al sicuro), per questo Ghezzim si sente al sicuro e ti guarda con gli occhi di un cane che ha trovato il padrone. «Riparazione, adesso comincia a parlarne anche il Ministero di Giustizia, e che cosa sia è presto detto: non è un indennizzo, non è il perdono delle vittime, è il processo alla fine del quale il reo si rende conto del male che ha fatto, è il sentimento con cui può riscattare se stesso e riconciliarsi con la società». Non accade sempre e, se accade, lo si sa dopo, talvolta mai. Con Pietro è accaduto. A Milano aveva ucciso un uomo e qui al «Progetto Jonathan» ci era arrivato con la faccia del ‘ndranghetista ribattuto: «Che ci fate voi qua – ha chiesto ai volontari della struttura – fate del bene? Coglioni!» . «Pietro si è diplomato ragioniere, è uscito e si è laureato con una tesi sul no-profit proprio lui che era un profit allo stato puro (ho a che fare con te solo se mi conviene), poi è tornato in Calabria e sul campo del padre morto, a Mesoraca, a 750 metri sul mare, ha piantato ulivi. Ora produce olio, le etichette delle prime bottiglie le abbiamo stampate insieme, qui al Jonathan, le cassette di legno per le confezioni natalizie le ha costruite Ancagiuna, un falegname peruviano, un omicida».

Il pezzo mancante è stato trovato per Darlinton, nigeriano, la famiglia sterminata da Boko Haram. A Lampedusa qualcuno gli ha detto «butta la cima», lui l’ha buttata e la polizia lo ha arrestato come scafista. «Qui si pagava l’affitto portando in giro la droga, 45 euro a consegna. Diceva di essere un sarto. Allora gli ho messo davanti una vecchia Paf, una macchina da cucire che apparteneva a mio padre e gli ho intimato: adesso cuci. Lui ha tirato fuori la spolina, ha infilato il filo nell’ago e in quel momento ho visto mio padre, anche mio padre faceva il sarto». «Un altro è Pino, uno che ha conosciuto qui la sua donna e mi ha voluto come testimone al suo matrimonio. Forse ti serve qualcuno di meglio, ho chiesto. No, ha risposto, questa è la mia casa. Un altro ancora è Bilan che se ne andò. Dopo sei anni tornò, mise sul tavolo una busta con la raccomandazione di aprila dopo. Dentro c’erano 300 euro e un biglietto: «Sei anni mi ci sono voluti, solo al terzo ho capito il bene che mi avete fatto». I pezzi che mancano a volte tornano in maniera criptica. Come per Super, un georgiano che sapeva solo dire Super perché non conosceva altre parole in italiano. Un giorno «Jonathan » ha ricevuto una chiamata dalla Svizzera, dall’altro capo del filo solo una parola: «Super ». E nient’altro. «Jonathan», l’aggiusta-uomini che non vuole il suo nome sul giornale, manda avanti la baracca assemblando componenti di plastica per una ditta di accessori per cani, la Mps, 5 mila di fatturato al mese, il resto gli viene dalla pubblica generosità. Ma gli uomini restano la sua specialità e, anche se i pezzi mancanti sono difficili da trovare, non dovrebbe essere difficile aumentare la produzione.